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sabato 16 ottobre 2010

L'etica e l'economia sviluppata nel pensiero dell'epoca Scolastica.

Come noto, il Medioevo è la prima delle quattro grandi epoche (classica, medioevale, moderna e contemporanea) nelle quali – tradizionamente – viene divisa la storia dell’Europa.
Sulla base della suddetta articolazione temporale il suo inizio, per convenzione, si colloca nel 476 d.c. (deposizione dell’ultimo imperatore romano, che sancisce la fine dell’Impero Romano d’Occidente). Un po’ più difficile definirne invece la conclusione legata - paese per paese – alla nascita delle rispettive monarchie nazionali ed al sopraggiungere del periodo artistico e culturale del Rinascimento che trovò la sua culla naturale a Firenze, per poi diffondersi in tutta Europa.
Una fase storica d’indubbia importanza è quella tra il XII ed il XIII secolo, epoca che segna l’epilogo medioevale e nella quale prende avvio lo sviluppo delle c.d. economie comunali ed iniziano ad assumere valenza i traffici commerciali e finanziari delle economie cittadine.

Agostino in un dipinto di
Antonello da Messina
Dal punto di vista filosofico, dopo aver assistito allo sviluppo del filone della Patristica che – in pieno medioevo – fa propri i contributi degli autori cristiani culminanti nella grande sintesi di S. Agostino di Tagaste o di Ippona (354 - 430), subentra un nuovo modello culturale: la Scolastica.
La distinzione di questi due periodi ha un fondamento speculativo.
Infatti la filosofia della Patristica pone il soprannaturale o Grazia a base della natura e la fede a base della ragione, e ciò per motivi razionali, ossia per ovviare alle conclusioni negative con cui si era chiusa la filosofia greca, lo Scetticismo gnoseologico e lo Scetticismo logico.
Partendo dalla motivazione fondamentale che ogni ente creato è mutevole e quindi manca di universalità e necessità, Agostino porrà a base di tutto il suo sistema la teoria secondo la quale le leggi universali e necessarie del pensiero, per mezzo delle quali si edifica la scienza, sono stampate nell’anima umana, che di per se stessa ne è priva, dalla luce divina o Grazia (teoria dell’illuminazione interiore); e poichè condizione preliminare all’ingresso della Grazia nell’anima è la fede (la Grazia è concessa solo al fedele), ecco la fede condizionare l’attività della ragione.
La dottrina agostiniana, evidente forma di misticismo, reggerà fino a quando non insorgerà l’esigenza apologetica, cioè la necessità di sistemare non la ragione sulla base delle fede, ma la fede sulla base della ragione, come è logico.
L’avvento della filosofia Scolastica infatti, sarà caratterizzato dall’orientamento spirituale opposto a quello della Patristica. Mentre questa era dominata dalla formula agostiniana «credo, ut intellegam» (credo, affinché sia possibile il funzionamento del mio intelletto mediante le leggi universali e necessarie ricevute soprannaturalmente dalla luce divina), la Scolastica sarà dominata dalla formula «intellego, ut credam» (l’attività del mio intelletto mira a dimostrare, e quindi a sistemare, razionalmente la fede).
La definizione della Patristica è quindi questa:
«La filosofia che pone il soprannaturale o fede alla base della natura o ragione».
La definizione della Scolastica è questa:
“La filosofia del soprannaturale o fede sistemata sulle basi della ragione naturale».


San Tommaso d'Aquino
Ritratto di Carlo Crivelli
L’aristotelismo cristiano troverà espressione nella grande costruzione sistematica di S. TOMMASO D’AQUINO (1225 - 1274), che, con grande audacia e procedendo da solo contro corrente, tenterà l’adattamento della filosofia dello Stagirita alla visione cristiana, e a questo scopo ne trasformerà e svilupperà molte tesi centrali. Dopo un cinquantennio di lotte di un accanimento senza pari il tomismo diventerà filosofia ufficiale della Scuola Domenicana e della stessa Chiesa cattolica.
Ma dopo una premessa così articolata, una domanda sorge spontanea e cioè se, ai giorni nostri, può essere utile approfondire un argomento prettamente storico quale l’etica economica elaborata durante il Medioevo?
In un momento storico contrassegnato, mai come ora, da un forte dibattito sui rapporti fra etica ed economia, credo che possa essere interessante approfondire le soluzioni all’epoca prospettate dagli scolastici poiché ben pochi o addirittura quasi nessun filosofo dopo di loro ha più tentato di proporre l’idea secondo la quale sono i principi morali e non il desiderio di lucro fine a se stesso a dover guidare i processi economici.


Copertina originale del 1705.
Indicativo di un atteggiamento dominante nella modernità è il celebre “Fable of the Bees: or, Private Vices, Publick Benefits” (favola delle api: vizi privati e pubbliche virtù) di Mandeville in cui è espressa la celebre tesi per cui “il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtù da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa”.
E’ il vizio che stimola e promuove per Mandeville l’attività economica e senza vizi uno stato è inevitabilmente condannato alla povertà e alla miseria.

Ci si potrebbe quindi domandare se il benessere ottenuto dal soddisfacimento dei propri vizi contribuisce a creare le condizioni per lo sviluppo morale e intellettuale della persona, ma forse la domanda è ancora più semplice: siamo sicuri che solo il vizio possa promuovere l’attività economica?
A mio parere non si può affermare che l’etica economica medioevale sia stata una risposta “perfetta” alle problematiche economiche sorte nel basso medioevo né che essa possa costituire un modello valido per la nostra economia, le cui strutture sono ormai totalmente differenti da quelle basso medioevali.
Però diversi dei principi morali che caratterizzavano questa fase temporale pienamente improntata all’epica, possano essere applicati analogicamente anche nel contesto attuale.
Compito sicuramente complesso e difficile ma non impossibile e, per iniziare, bisogna ripetere che il pensiero economico medioevale per la sua necessità di far procedere la vita sociale in armonia agli imperativi etici e alla legge naturale, è classificato come “volontarista” volto cioè verso un sistema di norme che siano capaci di guidare l’uomo verso il Bene, che in questa etica “teologica” è Dio.
E’ una prospettiva molto diversa dalle dottrine di sei – settecento anni prima, secondo le quali l’ordine e l’equilibrio sarebbero intrinseci al sistema economico, impronta naturalistica che non può che suonare incomprensibile a un medioevale il cui principale obiettivo non era il proprio benessere o quello della società, bensì la salvezza della propria anima e di quella degli altri uomini.
Una tale prospettiva emerge già nella Città di Dio di Agostino (detto Agostino d’Ippona, città algerina della quale è stato vescovo e dove è morto il 28 agosto 430).
Agostino in un affresco di Sandro Botticelli
Per comprenderne la dottrina, si deve considerare il suo vissuto esistenziale di Agostino, che sperimentava un insanabile dissidio tra la ragione e il sentimento, tra spirito e carne, tra il pensiero pagano e la fede cristiana.
La sua filosofia consistette nel tentativo grandioso di riconciliarli e tenerli uniti. Fu proprio l'insoddisfazione per quelle dottrine che predicavano una rigida separazione tra bene e male, luce e tenebre, a spingerlo a subire l'influsso dello stoicismo e soprattutto del neoplatonismo, i quali viceversa riconducevano il dualismo in unità.
Sant'Agostino infatti, concepisce Dio come la meta naturale a cui la ragione aspira, e nel quale finalmente la discordanza dualistica tra soggetto e oggetto, pensiero ed essere, si riconcilia in unità.
L' Uno è per lui la radice dell'amore che tende per natura ad unire: sentimento non solo dell'uomo ma ora anche di Dio, che desidera ricomporre le alterità (differenza tra due entità) del mondo, arginando la frattura con l'umanità verificatasi a causa del peccato originale.
Una società del genere in cui l’immoralità produce benessere e il benessere immoralità poteva apparire appettibile a Mandeville ma per un medioevale, ancora di più se lettore di Sallustio e di altri moralisti latini, un tale sistema economico non poteva che apparire mortifero spiritualmente.
E’ la Chiesa nel Medioevo a regolare dal punto di vista morale le attività economiche per mezzo del diritto canonico e a guidare l’individuo per mezzo di una minuziosa casistica che penetra ogni aspetto del processo economico e sociale e realizza un sistema compatto e ordinato di precetti morali che avvolge e norma l’intera struttura economica.
Altra caratteristica dell’etica economica medioevale è la ricerca del giusto mezzo, della moderazione, della misura: si lavora, ci si applica, ci si preoccupa ma solo per quanto è necessario al soddisfacimento dei propri bisogni, bisogni che sono determinati dalla propria condizione sociale.
Ogni ansietà, ogni attaccamento, ogni desiderio di guadagno che supera i propri bisogni vitali è da condannare, e questo distacco dai beni esteriori, già presente nello stoicismo, si salda perfettamente con l’abbandono evangelico alla Provvidenza: “Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena”.
Molti gli autori di riferimento, sia i canonisti che i teologi e – tra quest’ultimi – merita evidenza soprattutto Tommaso D’Aquino; ma, ad esempio, anche Dante e Boccaccio fecero riflessioni sul comportamento economico.
Ma torniamo ai nostri approfondimenti, esaminando il primo grande tema dell’epoca: il lavoro.
Nel pensiero medioevale è un dovere etico per tutti gli individui, al quale non è lecito sottrarsi; ”Chi non lavora,non mangia” aveva minacciato non a caso San Paolo.
Il pericolo da cui il lavoro deve tenere lontani è l’ozio perché l’ozio porta al peccato e il peccato alla morte eterna.
“ L’ozio è nemico dell’anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio della parola di Dio” recita la Regola benedettina mentre Francesco da Assisi lascia, fra le sue ultime volontà, una ferma richiesta che i suoi frati si applichino al lavoro.
San Tommaso con la Summa
(affresco del Beato Angelico - 1442 circa)

Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae illustra le finalità del lavoro con la chiarezza tipica del suo stile:
- assicurarsi il vitto;
- combattere l’ozio “da cui nascono tanti mali”;
- frenare la concupiscenza in quanto il lavoro mortifica il corpo;
- donare una parte di ciò che si è guadagnato come elemosina.

Poiché “è ordinato ad assicurare il vitto, il lavoro manuale ha necessità di precetto nella misura in cui è necessario a questo fine: infatti ciò che è ordinato a un fine prende da questo la sua necessità, essendo necessario nella misura richiesta dal fine stesso. Perciò chi non ha altro mezzo per poter vivere, qualunque sia la sua condizione, è tenuto al lavoro manuale”.
Per Tommaso il lavoro non è solo quello manuale in senso stretto infatti “per lavoro manuale si intende qualsiasi lavoro con il quale uno può guadagnarsi lecitamente da vivere”quindi anche il lavoro intellettuale e spirituale.
Tema più delicato è quello del lavoro servile dove sono presenti una molteplicità di opinioni che Tommaso cerca di mediare, seppur mantenendosi nella linea aristotelica con approccio legato ai fondamenti “etici”: ”considerando le cose per se stesse non esiste una ragione naturale per cui un dato uomo debba essere schiavo e non invece un altro, ma ciò deriva solo da un vantaggio conseguente, cioè dal fatto che è utile per costui essere governato da un uomo più saggio, e per quest‘ultimo essere da lui aiutato”.
Anche nella schiavitù l’uomo non perde tuttavia la sua libertà spirituale: ”sbaglia chi pensa che il dominio sullo schiavo abbracci tutto l‘uomo. La sua parte più nobile ne è eccettuata. Ai padroni sono sottoposti e assegnati i corpi, ma l‘anima è libera”(Tommaso in questo caso cita Seneca) né la schiavitù può derogare al diritto naturale che comprende anche la libertà di contrarre matrimonio:“come l‘appetito naturale spinge alla conservazione dell‘individuo, così spinge alla conservazione della specie mediante la generazione. Come dunque lo schiavo sottostà al padrone potendo liberamente mangiare, dormire e compiere altre simili cose che riguardano le sue necessità corporali, senza di che non si può conservare la natura, così non deve sottostare ad esso al punto di non poter contrarre liberamente il matrimonio, anche all‘insaputa o contro la volontà del padrone”.
Benché mai formalmente messa in discussione dal magistero, la schiavitù scompare a poco a poco nel corso dell’Alto Medioevo sia per motivazioni economiche sia per la sempre più forte penetrazione del Cristianesimo nella società che, nonostante condanni gli schiavi che si rivoltano e non metta mai in discussione l’istituto stesso, incentiva in ogni modo e con ogni mezzo la liberazione degli schiavi in nome dell’uguaglianza e della fraternità evangelica e condanna ogni atto di violenza compiuto dai padroni.
Importante distinzione per i teologi medioevali è poi quella fra artes possessivae e artes pecuniniativae, le prime riguardano la produzione di beni di consumo volti al soddisfacimento di esigenze vitali che si svolgono armonicamente secondo natura e sono le più auspicabili come l’agricoltura e l’industria, le seconde invece riguardano l’ambito commerciale e pur non essendo illecite, necessitano di certe cautele affinché possano espletarsi in modo non peccaminoso e possano contribuire al bene della comunità.
La giustificazione scolastica della divisione del lavoro è molto diversa da quella che sarà sostenuta da Smith con il celebre esempio della fabbricazione dello spillo: essa è giustificata non tanto quanto mezzo per l’aumento della produttività ma in quanto dovere sociale e aderenza al piano divino:ogni uomo infatti deve seguire e coltivare la propria inclinazione che gli è stata data dalla Provvidenza perché solo così potrà costituirsi e prosperare la società che per sussistere deve essere composta da una pluralità di professioni e mestieri.
Questione più complessa è quella della remunerazione del lavoro poiché si lega anche alla questione del giusto prezzo, la precisazione del quale costituisce uno dei maggiori travagli per la Scolastica.
Intanto il salario si può definire per gli scolastici come il prezzo di un lavoro: “ come quindi pagare il giusto prezzo per un acquisto è un atto di giustizia, così è un atto di giustizia pagare la mercede per una prestazione, o per un lavoro”.

Ritratto del santo ad opera di Fra Bartolomeo
Tommaso analizza la tematica del giusto prezzo (che si rifà ad Aristotele), affermando che l’importo doveva garantire la giustizia commutativa, cioè lo scambio uguale onde evitare che dalla permuta di merci nessuno poteva ottenere più di quanto dava; gli scolastici elaborano inoltre la teoria del giusto salario, affermando che doveva garantire al lavoratore un livello di vita adeguato alla sua condizione sociale.
In base a queste premesse i teologi morali stabiliscono tutta una serie di precetti al fine di difendere i lavoratori da possibili soprusi ad opera dell’imprenditori come vietare dilazioni nei pagamenti o di pagare con monete false o in natura con merci per lo più scadenti o l’ agganciare il dipendente con prestiti e nello stesso tempo ottenere dalla corporazione il divieto di assumere operai indebitati in modo tale da costringerlo ad accettare retribuzioni inadeguate.
Il lavoro inoltre se vuole portare beneficio all’anima non deve essere eccessivo, superare certi limiti per esempio per arricchirsi conduce alla dannazione.

Altra tematica lungamente dibattuta è quella della proprietà e, nel passaggio alla Scolastica si attenuano attacchi contro la proprietà privata ormai è riconosciuta come male necessario, data l’imperfezione umana, per la sopravvivenza della società anche se sullo sfondo ovviamente rimane la vita monastica contrassegnata da una radicale scelta di povertà e dalla vita comunitaria come modello di perfezione.
La definitiva e “canonica“ dottrina Scolastica sulla proprietà si ha in Tommaso.
Le cose esterne, quanto alla loro natura, non sono proprietà dell’uomo ma di Dio solo, quanto invece, nell‘uso che di esse si può fare, “l‘uomo ha il dominio naturale sulle cose esterne: poiché egli può usarne a proprio vantaggio mediante l‘intelletto e la volontà, considerandole come fatte per sé”.
Del resto è Dio che ha voluto che certi beni fossero destinati a sostegno della vita delle creature.

Quanto alla domanda se l’uomo possa possedere qualcosa in proprio, Tommaso distingue fra amministrazione e uso:

1. dal lato della facoltà di procurarsi e amministrare è lecito all’uomo possedere beni propri anzi è necessario per tre motivi , primo “perché ciascuno è più sollecito nel procurare ciò che appartiene a lui esclusivamente che non quanto appartiene a tutti”,secondo perché “perché le cose umane si svolgono con più ordine se ciascuno ha il compito di provvedere a una certa cosa mediante la propria cura personale” e terzo perché “così è più garantita la pace tra gli uomini, accontentandosi ciascuno delle sue cose. Infatti vediamo che tra coloro che possiedono qualcosa in comune spesso nascono contese”.
2. dal lato dell’uso invece “l‘uomo non deve considerare le cose come esclusivamente proprie, ma come comuni: in modo cioè da metterle facilmente a disposizione nelle altrui necessità”.

La proprietà pur non essendo prevista dal diritto naturale è “un suo sviluppo dovuto alla ragione umana” e la distinzione delle proprietà per il suo carattere “positivo” deve essere stabilita per convenzione.
Non pecca il ricco inoltre ,se impossessandosi per primo del bene che era in comune, ne fa partecipi gli altri; pecca invece se ne impedisce l‘uso agli altri.
La proprietà per Tommaso non ha niente di assoluto come invece era nel diritto romano in quanto è prevalente in essa la destinazione a vantaggio dell’intera comunità.
L’arricchimento non è escluso ma deve essere in funzione di un maggiore intervento sociale, è un mezzo, non un fine.
Quanto al furto, in quanto appropriazione della roba altrui esso, non solo è immorale ma costituisce addirittura peccato mortale: esiste solo un caso specifico in cui però l’appropriarsi di beni altrui non costituisce peccato: è il caso della necessità.
Tommaso afferma ancora una volta che il diritto positivo che istituisce la proprietà non può derogare al diritto naturale che prescrive di provvedere con i beni esterni alle necessità di tutti gli uomini e di conseguenza è doveroso servirsi delle cose che uno ha in sovrappiù per soccorrere i poveri.
Ma “siccome però sono molte le persone in necessità, e non è possibile soccorrere tutti con una medesima fortuna personale, è lasciata all‘arbitrio di ognuno l‘amministrazione dei propri beni, per soccorrere con essi chi è in necessità.”
Ma nel caso in cui la necessità sia così urgente ed evidente da esigere il soccorso immediato con le cose che si hanno a portata di mano “allora uno può soddisfare il suo bisogno con la manomissione, sia aperta che occulta, della roba altrui”.


Il mondo medioevale eredita questo scetticismo verso la “mercatura” (Pratica e tecnica del commercio, perlopiù in riferimento all'attività mercantile alla fine del Medioevo) anche se presto viene superato.
Anche qui è fondamentale la riflessione dell’Aquinate che si articola in quattro articoli della Questione 77.
La prima questione da affrontare è se sia lecito vendere una cosa per più di quanto vale; Tommaso risponde negativamente in quanto la ritiene frode a danno del prossimo.

La compravendita può essere considerata sotto due aspetti:

1. a comune vantaggio dei due interessati “poiché, l‘uno ha bisogno dei beni dell‘altro, e viceversa. Ora, ciò che è fatto per un vantaggio comune non deve pesare più sull‘uno che sull‘altro. Quindi il contratto reciproco deve essere basato sull‘uguaglianza”.Il valore delle cose è misurato dal prezzo per il quale è stato inventato il denaro e se il prezzo non corrisponde con il valore è un ‘ingiustizia.
2. ci può essere il caso per cui “uno ha urgente bisogno di una cosa e l‘altro viene danneggiato privandosi di essa”,in questo caso il venditore può alzare il prezzo.Se poi uno riceve un vantaggio rilevante dall‘acquisto senza che il venditore venga danneggiato privandosi di ciò che vende, questi non ha il diritto di aumentare il prezzo,caso mai,l’acquirente potrà pagare un prezzo superiore a quello concordato.

Il giusto prezzo che - come detto - rappresenta uno dei temi più dibattuti dell’epoca Scolastica, “va computato con una certa elasticità, per cui piccole maggiorazioni o minorazioni non compromettono l‘uguaglianza della giustizia”.
Tommaso introduce a questo punto la sua svolta : “si deve notare però che il guadagno, il quale costituisce il fine del commercio, sebbene non implichi di per sé un elemento di onestà o di necessità, non implica tuttavia nella sua natura alcunché di peccaminoso o di immorale. Perciò nulla impedisce di ordinare il guadagno a qualche fine necessario, o anche onesto. E in questo caso il commercio è lecito.
Tommaso in questo modo riesce a rendere morale l’attività commerciale quando è ordinata ad un fine onesto quale il sostentamento della propria famiglia, il soccorso dei poveri e il bene comune.
In questa visione il fine non è più il guadagno che si riduce a compenso del lavoro svolto, bensì il bene della società.
Il profitto dato dalle attività commerciale mantiene insomma una certa ambiguità, può essere utilizzato per attività caritatevoli, oblazioni alle chiese, elemosine ai poveri, ma anche può generare desideri sfrenati di arricchimento e di tesaurizzazione.
La mostruosa fecondità dell’usura spaventa e terrorizza il medioevale che inorridisce pensando al fatto che “il denaro a usura non smette di lavorare e fabbrica denaro senza posa “non fermandosi né di notte né durante le feste né di Domenica fornendo così ulteriore prova di disprezzo verso l’ordine naturale fissato da Dio; l’usuraio inoltre è l’avaro per eccellenza perché non impiega il suo denaro per il bene comune né per aiutare i poveri ma oziosamente aspetta che gli interessi illegittimamente pretesi fruttino.
Altra critica che è rivolta agli usurai è il venir meno al dovere del lavoro come dice il chierico inglese Tommaso di Chobman :“l’usuraio vuol ricavare un profitto senza lavorare affatto e addirittura dormendo cosa che contravviene il precetto del Signore “Con il sudore della tua fronte mangerai il pane” ;infatti il lavoro è strumento di riscatto, di dignità, di salvezza, di collaborazione all’opera del Creatore, in questo ordine di progresso “l’usuraio è un disertore”.
Mentre è esaltata la distribuzione e l’investimento della ricchezza monetaria, si condanna la tesaurizzazione come comportamento sterile e tipico degli infedeli di cui il prestito ad interesse è la concretizzazione più deleteria, il denaro deve essere fatto fruttare , lo ricorda anche il Vangelo con la parabola dei talenti ma deve essere fatto in maniera lecita e a vantaggio della comunità.
L’usuraio è uno dei pochi mestieri ritenuti in sé illeciti, perfino la prostituzione gode di un trattamento più benevolo tant’è che Tommaso afferma che “La donna infatti che fa la prostituta esercita un mestiere turpe contro la legge di Dio, ma nel ricevere il compenso non agisce ingiustamente, né contro la legge”poiché non è il guadagno medesimo illecito, ma perché la cosa da cui viene ricavato è disonesta al contrario dell’usura in cui il guadagno stesso è illecito.
Bisogna poi dire che per usura si intende non soltanto il prestito con interesse ma anche l’acquisto con pagamento dilazionato, i prestiti dei signori ai dipendenti con la pretesa di un maggiore numero di giorni di lavoro oltre quelli dovuti o la vendita di un bene con un prezzo superiore al valore.
Poiché la moneta apparteneva alla categoria dei beni fungibili, la si perdeva usandola per fare acquisti. Chi la presta, ha diritto alla restituzione ma non può pretendere un prezzo per l’uso, cioè l’usura..
Con lo sviluppo delle attività economiche, questi aspetti verranno - per così dire – normati ed estesi, permettendo a molti mercanti di “mettersi in regola” con la Chiesa.
In particolare, verranno teorizzate cinque giustificazioni che rendono lecito la riscossione di un interesse:
- le prime due fanno riferimento al concetto di indennità :il damnum emergens (l’unica ammessa da Tommaso ma solo in caso di ritardo dell’adempimento, non se l’obbligo è soddisfatto nei termini) cioè la comparsa di un danno dovuto a un ritardo del rimborso e il lucrum cessans cioè l’impedimento di un maggiore profitto che il mercante mutuante avrebbe potuto avere utilizzando per un investimento il denaro prestato;
- la terza si basa sulla constatazione che nel prestare un capitale c’è una percentuale di rischio il periculum sortis (anche la sua accettazione sarà molto tarda) ;
- la quarta è la messa in conto dell’incertezza (ratio incertitudinis);
- la quinta verte sulla necessità di una retribuzione per il lavoro (stipendium laboris) compiuto dal mercante.

Interessante fenomeno per le sue implicazioni morali è quello dei Monti di Pietà che compaiono fra XV secolo e XVI secolo nate su iniziativa dei Francescani per erogare prestiti di limitata entità in cambio di un pegno che si diffondono in tutta Italia.
Ingresso del Monte di Pietà Vecchio di Brescia
Il primo monte di pietà istituito nel 1462 a Perugia è ben presto imitato altrove; nel giro di una dozzina d’anni nell’Italia centrale sorgono una quarantina di monti e in seguito la nuova istituzione dilaga nell’Italia Settentrionale (Bologna 1473, Savona 1479, Milano e Genova).
La loro funzione era fare prestiti alle magistrature cittadine e perseguire finalità sociali e caritatevoli, i prestiti sono concessi a fronte del pegno di oggetti preziosi ma non solo e all’inizio sono gratuiti solo successivamente è introdotto un modesto interesse rivolto al solo scopo di far fronte alle spese di esercizio.
Furono tenacemente avversati dai domenicani che vedevano nella loro attività una forma seppur celata di usura mentre  
Il Monte di Pietà di Messina
 furono difesi dai francescani che giustificarono la riscossione di interessi non come prezzo del mutuo ma come partecipazione alle spese di funzionamento.
Ai monti di pietà stabiliti nei centri urbani fanno riscontro nella campagne organismi simili: i monti frumentari, che prestano il grano da semina da restituirsi al successivo raccolto, e i monti delle castagne, che operano nelle zone montuose più povere.

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